"Rapporto tra teologia, mafia e Chiesa", lezione di don Antonio Palmese al Corso di Perfezionamento in Giustizia Riparativa

don Tonino Palmese all'Università Federico II

Don Antonio Palmese ha tenuto, presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell'Università Federico II di Napoli, una lezione sul rapporto tra teologia, mafia e Chiesa, nell'ambito del Corso di Perfezionamento in Giustizia Riparativa.  Il corso è promosso dalla Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, dal Dipartimento di Scienze Sociali della Federico II, la Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale - Sezione San Tommaso d'Aquino e il garante delle persone private della libertà personale della Campania, con il sostegno di Fondazione Con il Sud.

Di seguito il testo della lezione di don Palmese, presidente Pol.i.s.:

DIO DEI COLPEVOLI E DIO DELLE VITTIME.

Rapporto tra teologia, mafia e Chiesa

 

La questione Dio o di un dio

È necessario chiederci (e siamo in buona compagnia con l’episcopato italiano), come mai nelle regioni considerate per tradizione le più cattoliche del nostro Paese, si sia potuto “strutturare” la presenza della criminalità organizzata? E sottolineo ORGANIZZATA, per dire che non è solo un tema legato all’ontologia. Tra gli aspetti nocivi determinati da un certo cattolicesimo dobbiamo denunciare una seria riflessione e allo stesso tempo rivisitare la prassi celebrativa e più precisamente il rapporto che deve intercorrere tra peccato e perdono. Un perdono senza conversione e riparazione che si limita invece alla sola dimensione cultuale, diventa una vera e propria pratica di una religiosità tipicamente “naturale”, determinando sempre più il senso di sottomissione, e soprattutto l’assenza del concetto di responsabilità. Pertanto, dire fede in ambito “cosmico-naturale” vuol dire una vera e propria forma di superstizione. Evidentemente l’assenza di una evangelizzazione fondata su una esegesi biblica scientificamente condivisa e soprattutto la considerazione del perdono di Dio fuori da ogni autenticità biblica, anzi evangelica, ha alimentato il convincimento non solo della cosiddetta doppia morale ma addirittura la conciliabilità con l’essere cattolico e mafioso. Paradossalmente si può affermare che è possibile essere cattolico ma non cristiano. Pertanto, mi sembra importante recuperare le osservazioni (nel senso di preoccupazione) che vengono dai due documenti della conferenza episcopale italiana il primo del 1989: Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno; il secondo del 2010: Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno

Il primo Documento dice che: << La criminalità organizzata, che ha assunto le forme di impresa e di una economia sommersa e parallela, trova un "humus" e disponibilità all'aggregazione per carenze di sviluppo economico, sociale e civile e in particolare per la disoccupazione di troppi giovani, ai quali offre la lusinga di rapidi guadagni. (…) La criminalità organizzata viene favorita da atteggiamenti di disimpegno, di passività e di immoralità nella vita politico-amministrativa. C'è, infatti, una "mafiosità" di comportamento, quando, ad esempio, i diritti diventano favori, quando non contano i meriti, ma i legami di "comparaggio" politico>> (13-14).

Il Documento del 2010 ribadisce tale denuncia. <<Vogliamo ricordare i numerosi testimoni immolatisi a causa della giustizia: magistrati, forze dell’ordine, politici, sindacalisti, imprenditori e giornalisti, uomini e donne di ogni categoria. Le comunità cristiane del Sud hanno visto emergere luminose testimonianze, come quella di don Pino Puglisi, di don Giuseppe Diana e del giudice Rosario Livatino, i quali − ribellandosi alla prepotenza della malavita organizzata − hanno vissuto la loro lotta in termini specificamente cristiani: armando, cioè, il loro animo di eroico coraggio per non arrendersi al male, ma pure consegnandosi con tutto il cuore a Dio. Riflettendo sulla loro testimonianza, si può comprendere che, in un contesto come quello meridionale, le mafie sono la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”. In questa prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato>>.

Le radici della teologia mafiosa

Ci sono oggi, anzitutto, dei gruppi e degli individui che continuano porsi ancora davanti alla questione di Dio in maniera sostanzialmente uguale a quella in cui lo si faceva in passato, quando i mutamenti epocali non erano ancora avvenuti.Diciamo "sostanzialmente uguale", perché è innegabile che l'influsso dei cambiamenti si fa sentire in qualche misura anche in questi ambiti.

All'interno di questi territori caratterizzati dalla cultura e presenza mafiosa possiamo annoverare due grossi blocchi:

• quello di coloro che vivono una religiosità di tipo cosmico o naturale,

• e quello di coloro che vivono una religiosità cristiana popolare, in cui si congiungono, più di una volta in modo sincretistico, elementi di fede cristiana ed elementi di religiosità cosmica1.

Ci sono certamente delle diversità di rilievo tra questi due blocchi. Eppure si può dire che la radice dalla quale procede il loro modo di porsi davanti al problema di Dio è sostanzialmente la stessa: in esse il divino viene vissuto e pensato a partire da una determinata esperienza di rapporto con la natura, quella propria dell'uomo pre-scientifico-tecnico.

L'uomo cerca di entrare in rapporto con le forze superiori che si manifestano nel mondo, e così nasce la religione. Essa è però diversa nelle sue espressioni, a seconda dell'immagine o idea del divino che si fa. Se il divino viene da lui concepito come avverso o temibile, sotto la spinta prevalente della paura si possono generare due diverse espressioni religiose: il tabù e la magia.

  • II tabù è espressione del tentativo dell'uomo di creare un muro di contenimento che impedisca al divino temibile e minaccioso di irrompere nell'ambii

  • La magia invece è la pretesa di manipolare, mediante determinati gesti rituali, la potenza divina al servizio della sicurezza e del benessere intramondani.

Se invece il divino viene concepito come almeno parzialmente benevolo dell’ammirazione che provocano i suoi interventi sgorgano la lode e il ringraziamento da parte dell’uomo, due forme più nobili di religiosità.

Occorre tener presente che, in realtà, queste diverse forme di religiosità difficilmente si trovano allo stato puro tra i popoli cosiddetti "primitivi". Sono piuttosto momenti integrativi della religiosità cosmica o naturale, con la prevalenza però di quelle derivate dalla paura.

L'immagine di Dio che presiede questi tipi di religiosità è di carattere principalmente cosmico, poiché, Dio viene identificato in tutto o in parte con la natura (cosmos). Quest'immagine incide poi profondamente sul modo di concepire e vivere l’intera esistenza umana: tutto - fenomeni naturali e anche sociali – viene più o meno intensamente sacralizzato, ossia collegato in forma immediata e diretta con il divino.

Per gli uomini e le donne che si muovono all'interno di questi due blocchi, Dio è qualcosa di evidente, di non problematico. La religiosità permea con naturalezza l’intera esistenza, personale e sociale. Tale evidenza può tuttavia andare soggetta a momenti di crisi. Il motivo più frequente di tale crisi è l'esperienza problematica del male, e specialmente della sofferenza ingiusta, incolpevole2. Si fa fatica a conciliare quel tratto eminente del Dio della rivelazione cristiana, che è la bontà illimitata, e quell'altro, tipico dell'immagine di Dio nella religiosità cosmica, che è il suo dominio assoluto e immediato su quanto accade nel mondo, con l'esistenza del dolore innocente. La crisi che ne scaturisce o si risolve mediante un rassegnato appello alla misteriosa "volontà di Dio", oppure sbocca nella negazione della sua esistenza.

Tratti dell’immagine di Dio dei mafiosi: Onnipotenza senza tenerezza; Trascendenza senza immanenza; Sovranità accessibile solo per mediazione.

Verso una nuova epistemologia 

L’importanza dell’invocazione-domanda

  • Bisogna isolare il virus di un cristianesimo dal Dio tappabuchi, il “deus ex machina” che risolve tutti i nostri problemi, il Dio onnipotente. Sono tutte immagini infantili di Dio. Il mondo ora è diventato adulto e anche l’immagine di Dio è dunque cambiata. Il cristiano è tale non per gli atti religiosi che compie, ma perché nel mondo prende parte alla sofferenza di Dio. Il Dio di Bonhoeffer è il Dio di Gesù Cristo, il Dio incarnato nella storia degli uomini, il Dio della “grazia a caro prezzo”, in contrapposizione a quello della “grazia a buon mercato” dispensata per molto tempo dalla Chiesa.

  • Padre Gustav Gutiérrez, in un testo molto importante, spiega la differenza fondamentale che rileva, in ragione dell’interlocutore. Lo esemplifica confrontando i “due Mondi” con i quali la teologia si è interrogata e cioè, la teologia “progressista europea” —sono parole sue— e la “teologia latino-americana della liberazione”:

Buona parte della teologia contemporanea sembra che sia partita dalla sfida lanciata dai non — credenti. Il non-credente mette in questione il nostro mondo, religioso ed esige da questo una purificazione e un rinnovamento profondi […). Comunque, in un continente come l’America Latina la sfida non proviene in primo luogo dal non— credente, ma dal non—persona, cioè, da colui che non riconosciuto come tale dall’ordine esistente, il povero, lo sfruttato, colui che sa appena appena di essere una persona. Il non—persona innanzitutto mette in questione non il nostro mondo religioso, ma il nostro mondo economico, sociale, politico, culturale, per questo rappresenta un invito alla trasformazione rivoluzionaria delle stesse basi di una società disumanizzante”3.

  • Il Dio di Gesù Cristo è il Dio dell’“essere per gli altri”, che cammina sulle strade degli uomini, che aiuta e serve, che condivide, che si schiera con i più svantaggiati e oltraggiati. Il Dio dunque che di fronte alle aberrazioni della storia non può non schierarsi dalla parte delle vittime contro l’oppressore. Dunque la risposta è da cercare altrove o meglio nel cosiddetto “abbassamento di Dio”. La Kenosis di Dio è il superamento del muro (per non dire buco nel senso di Bonhoeffer). Dio per essere definitivamente perfetto deve assumere ciò che gli manca: l’imperfezione. Questa sarà il luogo o il segno di Colui in chi veramente AMA. 
     

Superamento del triplice dualismo: Ontologico: Spirituale e materiale; Antropologico: Corpo e anima; Soteriologico: liberazione della materia e abitare il cielo. Tutto ciò determina una visione di “salvezza” tipicamente spirituale: individualista; ultraterrena; senza rapporto con la storia.

Dice Papa Francesco nell’enciclica Evangelii Gaudium: <<Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”>>(182).

La concezione cristiana che giustifica questo disinteresse è l’immagine di una salvezza che riguarda solo l’aldilà; a Dio non interessano, in questa prospettiva subconscia mai formalizzata, le vicende del mondo e della politica; a lui interessa la fede dei singoli, la vita cristiana nelle sue dimensioni personali e familiari. Gesù si è fatto uomo per salvare i singoli; non per riunire in una sola famiglia l’umanità dispersa. L’immagine esistenziale di Dio a noi trasmessa non riconosce spessore teologico alle realtà di ogni giorno, all’attività professionale, al lavoro, all’impegno negli ambiti sociale e politico; per conseguenza la pratica religiosa non tocca la vita sociale. Manca la voce profetica che denunzi religiosità e vita cristiana costruite sull’angusta misura della cultura, che apra la mente e il cuore alle problematiche sociali nazionali e mondiali, al grido dei disperati della terra

Proposta di programma universale del Cristianesimo nell’età della globalizzazione di johann baptis metz

II discorso sul Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che è anche il Dio di Gesù, non è espressione di un qualsiasi monoteismo, bensì di un monoteismo debole, vulnerabile, empatico: esso è in nuce un discorso su Dio sensibile al dolore.

(…) Sottolineo energicamente questa compassione scaturente dalla passione di Dio, perché il cristianesimo, a mio avviso, già molto presto incontrò grandi difficoltà con la qui accennata sensibilità elementare per il dolore, propria del suo messaggio. Il problema, turbante profondamente le tradizioni bibliche, della giustizia verso i sofferenti innocenti venne fin troppo rapidamente trasformato e convertito nel problema della redenzione dei reprobi. Per questo problema c'era pronta una risposta: l'azione salvifica di Cristo. Il problema della teodicea veniva placato e tacitato con la soteriologia, con il messaggio della morte espiatrice di Gesù.

(…) Il cristianesimo si trasformò da religione primariamente sensibile al dolore in religione primariamente sensibile al peccato.Il primo sguardo non era rivolto più al dolore della creatura, ma alla sua colpa. Ciò però non paralizzava la sensibilità elementare per il dolore altrui ne oscurava la visione biblica della grande giustizia di Dio, che comunque per Gesù avrebbe dovuto valere per ogni forma di fame e di sete?

Certo, questa accentuazione della sensibilità per il dolore, propria del messaggio cristiano e del suo discorso su Dio, non intende mettere in questione il significato del peccato e della colpa, dell'espiazione e della redenzione (e neppure in funzione dell’illusione di innocenza sociale oggi imperversante). Si tratta unicamente del problema della priorità e della proporzione - e della pericolosa unilateralità di un "assolutismo cristiano del peccato", in cui proprio le concrete esperienze individuali del fallimento e della colpa minacciano di scomparire.

Il nuovo Nome di Dio: “Noi Siamo”

Diceva don Tonino Bello: «I filosofi del primo millennio hanno teorizzato l’essere. Poi sono venuti quelli del secondo millennio e hanno impostato tutto sulla categoria dell’io. Nel terzo farà irruzione l’etica dell’altro: allacceremo rapporti umani basati sulla contemplazione del volto»4

La teologia fondamentale dalla quale attinge la presente riflessione don Tonino Bello parte dalla consapevolezza che come nel cielo Padre, Figlio e Spirito Santo si trasferiscono le loro ricchezze spirituali, anche noi dobbiamo trasferire le nostre ricchezze materiali e spirituali per metterle a disposizione degli altri. Il cielo è il luogo privilegiato delle relazioni, tant’è che i teologi definiscono le tre Persone come relazioni sussistenti. Anzi, le Persone divine vengono definite dalla teologia come: Persone sussistenti e relazioni sussistenti. Volti rivolti. Se un volto non è rivolto verso l’altro, non è più volto ma maschera. Ne deriva che anche qui, sulla terra, dobbiamo rovesciare la coppa: anche noi siamo “relazioni sussistenti”. Dovremmo vivere l’uno per l’altro, essere volto rivolto all’altro, volto che si rapporta all’altro.

Questo pensiero del vescovo di Molfetta, sintetizzato in poche righe è comunque denso di “conoscenza fisica” di Dio (mistica). Questo argomentare di don Tonino mi induce ad entrare non tanto nei meandri del dogma quanto invece nel nostro linguaggio, frutto di un pensiero e spesso di un’esperienza che imprigiona Dio nel tabernacolo delle nostre definizioni consolatorie o peggio nei nostri schemi intellettuali, togliendo cosi alla Spirito di Dio la volontà salvifica di agire con chi vuole, dove vuole e come vuole.

La puntualizzazione sulla dimensione trinitaria non ha la pretesa di rivisitare tale teologia, se non per descrivere tale “economia” come modello per le nostre relazioni e allo stesso tempo sdoganare un’immanenza di Dio che proprio perché è Vera non vuole avere una funzione squisitamente soprannaturale ma esige da noi adorazione, contemplazione, ma soprattutto sequela. La relazione Trinitaria è per la comunità credente il passaggio dalla dossologia alla politica. Come in cielo, tre Persone uguali e distinte formano un solo Dio, così sulla terra le persone formano un solo Uomo, l’Uomo nuovo: Gesù Cristo. Insomma, vedere la Trinità, vuol dire agire come Dio, oltre a ciò che Lui ha detto attraverso il Verbo Incarnato. La Sua immanenza è da considerarsi necessariamente economica, salvifica oltre che mistica.

Ribadisco perciò una dottrina fondata sulla Santissima Trinità, affermata e ben sintetizzata da San Paolo VI durante l’omelia di chiusura dell’Anno della Fede del 1968: 

Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità» (Dz-Sch. 75)” (30 giugno 1968).

Verso una pratica evangelica (e laica) della giustizia riparativa

L’icona di Zaccheo

Una delle accuse che vengono rivolte al cattolicesimo rispetto al tema delle mafie è la questione che è la questione perdono e cioè un'idea errata di perdono di Dio può alimentare nei mafiosi un’agire lontano dalla fede ma consapevole di essere perdonati in forza di una misericordia che si limita alla semplice dimensione orante e celebrativa di un sacramento come quello della confessione. Nella prassi sacramentale è vero che una certa immagine di Dio e il rifugio nella preghiera diventano gli ingredienti necessari per stabilire che è possibile vivere contro il fratello e contro la creazione continuando ad essere amati e perdonati da Dio. E necessario perciò indicare cammini di conversione che ristabiliscono la vita dei mafiosi verso un rapporto autentico con l'immagine di Dio quanto più vicina al volto di Cristo. Sarebbe interessante pensare a quanto abbia fatto poco bene se non addirittura male ridurre la penitenza sacramentale in vista del perdono ad una semplice prassi orante. L'insegnamento che viene dal Vangelo e in modo particolare dalla figura di Zaccheo il quale accoglie Dio nella sua vita portandolo a casa condividendo il pranzo e soprattutto sostenendo le ragioni della conversione con una vera e propria riparazione al danno commesso nei confronti dei fratelli. Restituire vuol dire riparare e Zaccheo restituisce sul piano della giustizia umana quattro volte ciò che aveva rubato alla collettività. Restituisce invece sul piano ascetico e spirituale la metà dei suoi veri ai poveri perché inizia ad intravedere in essi ciò che Gesù avrebbe insegnato in modo esplicito nel capitolo 25 di Matteo e cioè la sua identificazione in chi necessità di aiuto virgola di carità insomma di essere riconosciuto per riprendersi la dignità o smarrita oppure defraudata. In tal senso nel dialogo con i cosiddetti colpevoli perché appartenenti alle cosche o comunque perché hanno commesso delitti ritenuti gravi, la riparazione consiste soprattutto nella restituzione non solo o non tanto dei beni ma soprattutto della verità perché la società tutta possa essere certa di un cambiamento e di una ricollocazione nella storia da parte del peccatore. I percorsi di giustizia riparativa in questi anni l'esperienza che si sta realizzando consiste soprattutto nell'incontro e perciò nella costruzione di ponti e non di muri tra le vittime e i colpevoli un incontro che non si realizza per il gusto di mettere insieme che ha subito e chi è determinato la sofferenza ma soprattutto la grande occasione di confrontarsi su ciò che è accaduto per evitare che la rassegnazione della propria condizione possa sfociare nella frustrazione o peggio ancora nella vendetta. Quando le vittime incontrano coloro che hanno commesso delitti al di là del proprio delitto subito nasce il desiderio di riappropriarsi della propria umanità ed intravedere reciprocamente nelle ragioni dell'altro qualcosa che ci conduce verso il volto di Dio, il volto del Cristo sofferente, il volto di colui che diventa via verità e vita.

la vergogna

Il magistrato e scrittore G. Carofiglio, afferma l’importanza del sentimento della vergogna per chi intende intraprendere un cammino di giustizia verso la riparazione. “Così come il dolore nel corpo è un segnale che qualcosa non va (una malattia, una tensione, un disturbo che colpisce il fisico), allo stesso modo la vergogna è un segnale che qualcosa non va, dal punto di vista morale. Un’emozione in grado, dunque, di allertare ciascuno in merito al proprio agire. Essere capaci di provare vergogna è, in definitiva, una salvaguardia per l’uomo, perché lo mette al riparo dall’oltrepassare i confini etici e morali, con leggerezza e superficialità”.  

Credo che questo concetto di “vergogna” possa essere addirittura intrapreso da tutte le parti del cammino della G.R.: il colpevole, la vittima e la società nelle sue sfaccettature di presenza e di intervento in questa realtà riparatrice.

La G.R. luogo ideale dell’incontro tra le parti

Siamo in un’epoca dove il tema del perdono è declinato (quasi in modo ridicolo) dal mondo della comunicazione che pensa di annoverare tra le domande che pongono a vittime e colpevoli quella della richiesta o disponibilità al perdono. Il tema del perdono fa difficoltà ad essere argomentato e celebrato persino nel mondo religioso, figurarsi quanto in una confusione politica e culturale possa avere senso la parola perdono. La stessa chiesa cattolica vive una profonda crisi riguardo il tema del perdono e della riconciliazione. Crisi che si quantifica in assenza di argomentazioni e ancor di più nella celebrazione dello stesso sacramento. Perciò la GR diventa la situazione che paradossalmente in modo laico la possibilità di costruire ponti che determinano la fine della disperazione, dell’odio e della rassegnazione. Pertanto, mi piace descrivere la GR come il “luogo” nel quale si potrà “celebrare” una certa riconciliazione, propedeutica allo stesso perdono.

Anche in questa definizione di incontro mi sembra giusto recuperare prassi evangeliche per mostrare che una errata esegesi (e non solo) abbia potuto incidere, se non addirittura determinare l’immagine di una fede e di una Chiesa lontana dal “fondatore”.

L’incontro tra le tre parti, fonda nell’umanesimo cristiano quando:

  • Nessuno parte dalle sembianze (culturali e non solo) del reo. Fermarsi alle “apparenze” significa alimentare il cancro del pregiudizio. La persona non è mai ciò che ha fatto. Il destino dell’uomo alla luce del vangelo consiste nell’essere tutt’altro che… e mai nient’altro che… come è il nostro Dio: Totalmente Altro. (Vedi il vangelo dove si racconta l’INCOTRO tra Gesù e l’emorroissa e nello stesso racconto con la figlia di Gairo). 

  • Un secondo aspetto dell’autenticità dell’incontro perché sia GR, sta nel fatto che bisogna saper leggere il presente alla luce dell’esistenza e della storia altrui (nonché propria). Spesso, anzi spessissimo ci si rende conto che il colpevole è diventato tale perché in principio fu vittime (ovviamente ciò non deve mai deresponsabilizzare nessuno). (L’importanza della memoria per non cadere nell’oblio della vittima e del colpevole).

  • Gioire del “ritorno all’umanità” (di tutte le parti). (Il Padre misericordioso. Libertà e responsabilità… fino al punto di far dire a Dio che non è la Sua onnipotenza a cambiare la condizione sub-umana ma la fede di chi chiede tale cambiamento). Premialità.

Chiesa e mafia: tra le pieghe della storia. 

Dividiamo in tre periodi l’interazione complessa tra le due realtà. Il primo periodo — dalle origini agli anni ’60 — è segnato dal silenzio: la Chiesa ignora la mafia. Nel secondo periodo la Chiesa alza la voce contro la mafia: sono gli anni ’70-’80. Nella terza fase, quella attuale, essa affronta il fenomeno in un contesto più vasto. 

1. Nella prima fase, quella del silenzio, la Chiesa tratta la mafia come problema individuale, che riguarda la coscienza del singolo peccatore. Pubblicamente tace, perché l’unità d’Italia ha relegato la Chiesa nel privato, l’ha esclusa dalla scena pubblica. Le vicende mondane non interessano più la Chiesa, rassegnata ad agire nel segreto delle coscienze. La mafia è faccenda dello Stato, non della Chiesa. Per di più le stesse famiglie hanno nel proprio seno mafiosi, preti, religiosi: una situazione, questa, destinata a creare grossi equivoci. Un caso estremo: Calogero Vizzini, capo mafia nel periodo tra fascismo e dopoguerra, vanta due zii vescovi, l’uno paterno l’altro materno, uno zio parroco del paese natale — Villalba in provincia di Caltanissetta —, due fratelli preti (5). La gente, preti compresi, è intrisa di cultura mafiosa; in ogni ipotesi la parentela esige solidarietà nella difesa dei congiunti. Il codice d’onore giustifica l’«onorata società»; crimini e delitti non devono essere sopravvalutati, perché sono extrema ratio per mantenere l’ordine. I mafiosi ostentano amore alla famiglia e devozione verso la Chiesa e i santi, intervengono per ristabilire la concordia e risolvere le cause dei piccoli. È storicamente documentato che non pochi preti e religiosi hanno condiviso simili giustificazioni fino a ritenere leciti la vicinanza e l’aiuto della mafia. L’influsso della cultura ha avuto la meglio sulla fedeltà al Vangelo (6). 

2. Il salto dal silenzio alla pubblica denunzia è legato al trasferimento della mafia dalla campagna alla città. La mafia, inserita in vecchi e nuovi traffici, in antichi e nuovi investimenti, maneggia cifre da capogiro; è presente nei gangli vitali della società e dello Stato. Tra gli amici annovera membri delle forze dell’ordine, magistrati, politici, pubblici amministratori, giornalisti, banchieri, funzionari dei servizi pubblici. Gioca a tutto campo: scatena lotte di predominio interno; elimina esponenti politici quali La Torre e Mattarella; assassina magistrati quali Terranova, Chinnici, Levatino, Falcone, Borsellino; uccide membri delle forze dell’ordine: Basile, Dalla Chiesa, Cassarà. Si tocca con mano l’assenza dello Stato; assente è anche la società civile. Nella costernazione generale si leva ripetutamente la voce del card. Salvatore Pappalardo, Arcivescovo di Palermo dal 1970 al 1997. La svolta è determinata dalla pesantezza del degrado sociale e politico e dall’affermazione di uno stile ecclesiale diverso, coerente con le spinte del Concilio Vaticano II. Il Cardinale è siciliano, in grado di intuire e denunziare i giochi che si nascondono dietro omicidi eccellenti; egli è sostenuto dalla sensibilità di clero e laici che reclamano interventi coraggiosi. L’Arcivescovo di Palermo è presidente della Conferenza Episcopale Siciliana: prese di posizione, nette e dure, portano la firma dell’assemblea dei vescovi e si ripercuotono in ulteriori condanne puntuali di singoli prelati davanti a nuovi crimini. 

3. Il card. Pappalardo era convinto che la strategia antimafia, nuda e semplice, fosse condannata al fallimento finché restava priva di progettualità positiva. Si fa strada l’idea di una azione ecclesiale che affronti il problema mafia in un contesto globale. Ricordiamo due documenti. Il primo — il Messaggio dell’Arcivescovo per l’Avvento 1994 (7) — incarna la reazione della Chiesa palermitana davanti all’assassinio di padre Pino Puglisi, parroco di Brancaccio, un quartiere ad alta densità mafiosa: «Si deve agire concordemente per contrastare la presenza e l’azione della mafia sul territorio. La Chiesa ha un suo motivo specifico per opporvisi, e deve quindi affrontarla con categorie proprie di pensiero, di sentimenti, di linguaggio, di azione». 

Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, nelle quali perdono la vita Falcone e Borsellino, due magistrati di alto profilo umano e professionale, hanno svegliato anche la società civile, da troppo tempo latitante. Essa scopre sempre più chiaramente il proprio protagonismo, pur tra esitazioni e oscillazioni, nella lotta a «Cosa Nostra». La Chiesa entra nella terza fase del rapporto con la mafia, diviene consapevole di un proprio compito specifico, legato all’annunzio del Vangelo. Il Vangelo è salvezza dalle strutture di peccato che si annidano nella cultura, è liberazione dall’odio e dalla vendetta, è superamento del sentire e dell’agire mafioso. Si delinea l’esigenza di una pastorale organica, che attinga alla specificità del Vangelo. 

Esiste una specificità dell’azione della Chiesa, la quale si richiama esplicitamente al Vangelo. Ma nel cammino accidentato verso l’intelligenza del Vangelo nella realtà di oggi, i cristiani esperimentano il peso del peccato e delle strutture di peccato, che impediscono loro di prendere chiara coscienza della sostanza anticristiana della mafia e di scorgere con chiarezza la strada per superare la mentalità mafiosa. Lo stesso si dirà, in termini laici, della società: l’azione della Chiesa, tesa a superare il fenomeno mafioso, ha ricadute positive sulla società; viceversa i progressi della società civile si traducono in ulteriore stimolo all’azione ecclesiale.

Questa breve riflessione che riguarda l’azione della Chiesa di fronte al fenomeno mafioso ha un duplice destinatario. Al mondo «laico» abbiamo inteso ricordare che la soluzione dei problemi italiani — tra i quali spicca la lotta alla mafia — esige una cultura nuova, la quale comporta un cambiamento assai profondo, che riguarda non solo l’intelligenza, ma l’intera persona umana, con i suoi criteri di giudizio e di valutazione. Al tempo stesso, abbiamo voluto invitare i credenti a cogliere e a tradurre in prassi l’impatto storico del Vangelo, e non solo ai fini del superamento del fenomeno mafioso: la mafia è solo uno degli ambiti che esigono la riflessione e l’impegno attivo dei cristiani.

1 La bibliografia sulla religiosità popolare è oggi molto abbondante. Indichiamo alcuni utili repertori bibliografici di una certa ampiezza: R. BRIONES - P. CASTON, Repertorio bibliogràfico para un estudio del tema de la religiosidad popular, in "Communio" (Siviglia) 10 (1977) 155-192;R. TROLESE, Contributi per una bibliografia sulla religiosità popolare, in Ricerche sulla religiosità popolare, Dehoniane, Bologna 1979, 273-324; ID., Contributi per una bibliografia sulla religiosità popolare, in "La Scuola" 110 (1982) 65-84.300-313.451; 111 (1983) 450-515; 113 (1985) 546-574;GUUARRO ALVAREZ I. - MORATA BARROS J., Bibliografìa sobre religiosidad popular, in Comunidades 81 (1994) [fìchero de materias] 1-39.

2 Vedere il n.37/3 della rivista "Lumen Vitae" interamente dedicato a questa tematica sotto il titolo: Comment parler de la soujfrance?', e anche L. BOFF, Passione di Cristo, passione del mondo. Il fatto, le interpretazioni e il significato ieri e oggi. Cittadella, Assisi 1978, specialmente i capitoli 6-8, pp. 118-175; E. SCHILLEBEECKX, Cristo. La storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980, 783-847

3 GUSTAVO GUTIERREZ, La forza storica dei poveri, Queriniana, Brescia 1981, pp. 71-72.

AUGUSTO CAVODI, Il Dio dei mafiosi, Ed. San Paolo 2009, pp. 100-120.

4 T. Bello, Sui sentieri di Isaia, La Meridiana, Molfetta 2006.

Back to top