Pubblichiamo una riflessione di Antonio, uomo ristretto nell'Istituto "Giuseppe Salvia" di Poggioreale, Padiglione Genova, partecipante al progetto "Parole in Libertà", in merito alla sete che attanaglia l'essere umano, e che si estrinseca in varie modalità, che hanno ripercussioni interiori ed esteriori.
ACQUA, SETE, DILUVI E MARE DI VITA
Davanti alla sete delle periferie si rende urgente adottare un’autentica conversione degli stili di vita e di cuore.
La sete è sete: una dura esperienza di sacrificio e di prova. C’è una violenza nel mondo e in noi stessi, che viene dalla sete, dalla paura della sete, dal panico di non vederci garantite le condizioni di sopravvivenza. La sete scoperchia un’aggressività che ci sorprende, ma che, a voler essere onesti, stava già da qualche parte dentro di noi. Chiaro che non è piacevole riconoscersi in questa immagine, ma essa per lo meno ci offre la possibilità di diventare più coscienti.
Il dolore della nostra sete è il dolore della vulnerabilità estrema, quando i nostri limiti ci schiacciano; la sete ci priva del respiro, ci esaurisce, ci devitalizza, ci sfinisce. Ci lascia assediati e senza forze per reagire. Ci porta al limite estremo. Si capisce come non sia facile esporsi alla sete. La sete si rivela così come una condizione anche spirituale; non è facile riconoscerla perché la sete è un dolore che si scopre a poco a poco dentro di noi, dietro alle nostre abituali narrazioni difensive, asettiche o idealizzate. E’ un dolore antico che, senza capire bene come, troviamo ravvivato e che temiamo possa indebolirci.
Ma agli assetati è utile ricordare che esiste una scienza della sete, e che essa aiuta a trovare sollievo. Ma la sete è caratterizzata da un complesso di sensazioni interne che la disidratazione scatena in noi e che la reidratazione ripara.
Bisogna imparare a bere, come sanno bene tutti coloro che accendono la propria sete bevendo fino all’autodistruzione senza dissetarsi mai, dimenticando l’acqua, l’essenziale, scambiandola per sostituti secondari che fanno male invece che mantenere in vita.
Entrare in contatto con la propria sete non è un’operazione facile, ma se non lo facciamo la vita perde aderenza alla nostra realtà. Abbiamo bisogno di questo atto di riconoscimento per ancorare il nostro percorso al nostro orizzonte concreto, biografico, storico.
"La pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare" (Is 55,10). La terra non rimane la stessa, è un processo rivitalizzante, ma la trasformazione non accade se impermeabilizziamo la vita nella sua crosta, o se ci proiettiamo in una idealizzazione che poi ci impedisce di guardare alla vita quale essa è, nelle sue forme e deformazioni, nella sua normalità e anomalia, nei suoi sussurri e nelle sue grida.
Può succedere di essere completamente assetati e di non accorgercene. Sembra che tutto fluisca, ma in profondità non è così. Dobbiamo perdere la paura di riconoscere la nostra sete e la nostra aridità.
Parlare della sete è parlare dell’esistenza reale, e non di una storia di noi stessi a cui troppe volte ci adattiamo, è illuminare delle esperienze più che un concetto. La sete ci esprime, scopriremo. Ma può avvenire che immersi nella nostra routine quotidiana, sconfessiamo i sintomi della sete, e a un certo punto questi divengano incomprensibili quanto una lingua straniera a cui non siamo iniziati. Eppure la necessità vitale di rigenerazione è da sempre incisa nella nostra carne.
Non possiamo fare come se la sete non esistesse.
Anzi, proprio dal mettersi in suo ascolto, dipende la consistenza e la verità della vita.